Ad Antonio Marini

Ieri,

il Professor Antonio Marini, docente universitario,
direttore dell’ Istituto di Pediatria e Neonatologia di via Commenda in Milano,

dopo una lunga malattia… ci ha lasciati.
Mi salvato 28 anni fa, nel luglio del 1978 (quando sono nato a sole 26
settimane e sono sopravvisssuto grazie a un incubatrice).
Devo molto a quest’uomo… persona seria, scrupolosa, studioso e uomo dal
grande cuore.
Fra la marea di stronzate lette sui giornali e viste in tv, nessuno ne ha dato
la notizia (tranne i necrologi del Corriere della Sera).
Ci ha lasciato un grande uomo… come molti grandi… se ne è andato in
silenzio.

Arrivederci, Professore.

 


Michael May sul progresso -articolo-

Sai cosa penso a vedere questo panorama? Penso che nei nuovi stabilimenti che vedi là all’orizzonte un operaio produce 20 volte l’acciaio che produceva in una vecchia fabbrica come questa. Questo significa che potrebbe lavorare soltanto 10 ore la settimana, e il profitto sarebbe comunque sufficiente. Credo che un mondo così tecnologicamente avanzato, dove la produzione è praticamente tutta automatizzata e un uomo da solo produce più di quanto producessero in 50 50 anni fa è un mondo ricco, ma la ricchezza non appartiene a chi lavora, appartiene a pochi, e nella storia società così squilibrate non sono mai durate a lungo.

Enzo Biagi sulla giovinezza -articolo-

E Pasolini mi disse: «Ho cancellato la parola speranza»

Ricordo certi
colloqui con Pier Paolo Pasolini
e soprattutto una frase: «Vedo di
fronte a me un mondo doloroso e sempre più squallido. Non ho sogni, quindi non
mi disegno neppure una visione futura». Nelle sue parole c’erano innocenza e
bisogno di verità. Non temeva la vecchiaia né aveva più paura della morte: «Ne
ho avuta molta a vent’anni. Ma era giusto perché allora, attorno a me, venivano
uccisi dei giovani, venivano trucidati. Adesso non l’ho più. Vivo un giorno per
l’altro, senza quei miraggi che sono alibi. La parola speranza è completamente
cancellata dal mio vocabolario». Perché concludo il libro con Pasolini? Perché
in poche parole lui è riuscito a rappresentare uno stato d’animo che è anche mio.
È vero, mi sono nascosto dietro le parole del poeta, ma non è facile mettere a
nudo quello che si prova, si è sempre un po’ portati a recitare una parte.
Anche per me lo scrivere non ha rappresentato solo il lavoro, è stato tutto
nella mia vita. So bene che è un mio grande limite, ma non sarei capace di fare
niente altro, non ho hobby, non so pescare, giocare a carte, il giardinaggio
non mi ha mai attratto, faccio sempre più fatica a leggere, mi interessano solo
le biografie nella speranza di trovare un po’ della mia vita e dei miei
pensieri in quelli degli altri. Non ho mai avuto frequentazioni mondane,
raramente partecipo a iniziative pubbliche, perché mi danno la sensazione di
essere ancora più solo. Sto con la mia famiglia e frequento pochi amici: Loris,
che mi scrocca sempre un pasto caldo, Missoni che ha per me un grande affetto,
ricambiato, Giancarlo Aneri e Giorgio Bocca con i quali mi incontro per il
premio «È giornalismo». Infine Franco Iseppi che mi tiene informato sulle
vicende della Rai e per lui credo sia diventato un incubo la mia domanda: «È
previsto qualcosa per noi? Ci faranno fare qualcosa?».

Ma gli amici servono
anche per questo
. Ricordo quando fu direttore generale della Rai, e la
prima volta che lo andai a trovare al settimo piano di viale Mazzini, là dove
c’è il cavallo, mi tolsi la soddisfazione di andare a pisciare nel bagno dove
erano stati i grandi direttori generali: Ettore Bernabei e Biagio Agnes. Gli
amici della mia generazione, invece, uno alla volta se ne stanno andando: Federico
Fellini, Dario Zanelli, Renzo Renzi, Giuliano Lenzi, Sandro Bolchi, l’ultimo
Pietro Garinei. Mi manca la sua telefonata domenicale che arrivava anche quando
la Roma aveva
perso. Mi mancano i suoi commenti a quello che scrivo, mi manca il suo affettuoso:
«Tieni duro». Mi mancheranno le nostre discussioni guardando la partita in tv
nelle sere d’agosto, e le nostre silenziose passeggiate nei boschi. Da quando
Pietro era rimasto vedovo, quei pochi giorni che si concedeva lontano dal suo
Sistina, li passava con me a Pianaccio. Il ruolo del regista non lo abbandonava
mai; come arrivava organizzava la mia giornata: «Enzo devi camminare. Domani
andiamo a Porretta. Andiamo a prendere i prosciutti a Pietracolora». E alla
sera mi diceva: «giochiamo», che voleva dire metterci a cantare le nostre
canzoni, e quasi sempre vincevo io perché me ne ricordavo di più. Inevitabile
era la sigla di chiusura prima della buonanotte: «Roma nun fa’ la stupida
stasera» di Garinei e Giovannini, musica di Trovajoli, interpreti Pietro e
Enzo. Per scrivere un libro che parla anche della vita dell’autore, la mia
segretaria Pierangela mi ha preparato tanto materiale e una scatola di vecchie
foto dove ho trovato quelle di quando andavo a scuola a Bologna, che si fanno a
fine anno: tutti in fila, i più piccoli in piedi sulla panca nascosta dai più
grandi e il maestro al centro. Rivedo i miei compagni: sorridenti, pantaloni
alla zuava, chi aveva i soldi portava i maglioni come Robert Taylor, che fu un
bellissimo di Hollywood. (…) C’è qualcuno che ha detto che questa
generazione, la mia, non ha avuto altro che il tempo di morire. Ma c’è una cosa
che è ancora più triste, perché è vero che ci sono molti morti nella nostra
vita, ma come ha detto Bernanos, «più morto di tutti è il ragazzo che io fui».
Voglio dire che quello che la guerra ha portato via e che nessuno ci potrà mai
più rendere sono le illusioni, i sogni e gli errori dei vent’anni. Forse è qui
la nostra unica grande attenuante, quella di una generazione che non ha mai
avuto la giovinezza.

Enzo Biagi

Dal "Corriere della Sera" del 10 10 2006